Iaia Caputo per #2eurox10leggi

C'è chi dice che non è il momento. Chi che le 10 leggi sono un giochetto per sole donne. Noi invece pensiamo che quelli sollecitati dalle 10 leggi siano i temi che un Paese che si appresta a uscire da una delle crisi più profonde della sua storia deve affrontare. Per costruire un futuro davvero migliore. Ecco la lucida analisi della scrittrice Iaia Caputo che ringraziamo per il suo contributo prezioso.

Un paese che ha creduto di poter fare a meno delle donne, che dunque ha escluso fin dove ha potuto la metà dei suoi cittadini, che è poi anche la metà del genere umano, dalle istituzioni, dai partiti, dalla scena pubblica in generale e da qualunque luogo dove si prendono decisioni importanti per la vita di tutti, era destinato a diventare un brutto Paese, per le donne, certo, ma anche per gli uomini. Comincerei con il dire questo a chi (e mi sembra già di sentirlo) davanti all’iniziativa #2eurox10leggi è pronto a storcere il naso, se non a scandalizzarsi: ma come, a un passo dal default, in piena emergenza economica, vi sembra il momento di proporre normative che riguardano «lussi» da nord-Europa come l’educazione sessuale nelle scuole o il congedo di paternità obbligatoria?
Ebbene sì, non solo proprio in questo momento, ma più che mai in questo momento è la risposta, e per alcune determinanti ragioni.
La prima è che il rigore non potrà niente, neppure riordinare i conti italiani, se non coniugato a politiche di sviluppo, e ad almeno a un abbozzo di "visione" del tempo che verrà, ripensando il welfare, il mondo del lavoro, le diseguaglianze sociali e le frustre discriminazioni che ancora affliggono l’Italia. Seconda, e più importante ragione, è che in questo Paese «anomalo», l’anomalia che riguarda le donne (e di cui vorrei dare qualche dato), non è meno importante o urgente o dirimente delle altre, semmai le attraversa tutte, poiché è diventata uno dei vulnus di una democrazia malata. Quali sono infatti le conseguenze più drammatiche e visibili di questa esclusione delle donne? Il sessismo è dilagato, la misoginia si è diffusa alla stregua di un’epidemia, infettando linguaggi, comportamenti, mentalità, anche tra i giovani e i giovanissimi. Lo scontro tragico tra due paesi, due Italie, addirittura tra due antropologie umane, due visioni diametralmente opposte delle cultura istituzione e della convivenza civile, ha inevitabilmente portato la politica sulla strada di una guerra permanente, che dal conflitto guerresco tra opposte fazioni ha finito per mutuare la violenza dei lessici e dei gesti. La sostituzione dei «Padri della patria» con una genia di «Padri dell’orda», la generazione politica più vecchia (e monosessuale) del mondo, immersa in un orgiastico ed eterno presente, totalmente dimentica del futuro dei propri figli e altrettanto disinteressata all’impegno di un qualsivoglia lascito, al dovere dell’eredità (ciò che ha sempre legato una generazione all’altra sul filo della memoria e della riconoscenza), ha generato nel corpo sociale, tanto più tra i giovani uomini, un’irresponsabilità diffusa, una pericolosa incapacità a riconoscere il plurale oltre al proprio ego, il reale dal virtuale, il limite.
Secondo le più recenti stime dell’Istat (novembre 2011), la disoccupazione è cresciuta all’8,3 per cento e il 29,3 per cento dei giovani dai quindici ai ventiquattro anni non trova lavoro: quasi uno su tre. E dire che il rapporto dell’Istat relativo al 2010 era già apparso clamorosamente grave: un italiano su quattro a rischio povertà, il 18,8 per cento dei ragazzi che abbandonano la scuola prima del diploma superiore, 800 mila lavoratrici che dichiarano di essere state costrette ad abbandonare il posto alla nascita del primo figlio, e comunque il 27 per cento delle donne occupate lascia con la prima maternità in assenza di qualsivoglia servizio o aiuto economico. Ma probabilmente per denunciare la gravità della situazione occupazionale femminile basterebbe dire che il 50 per cento delle donne italiane risulta inattivo, cioè neppure più in cerca di un lavoro: la peggiore percentuale in Europa, solo Malta viene dopo di noi, e condannata a peggiorare con la crisi che assedia il vecchio continente. E non è solo questione di quantità, anche di qualità: stanno già diminuendo infatti le professioniste e le tecniche specializzate, mentre aumenta il lavoro poco o per niente qualificato. Solo le badanti resistono, e d’altra parte non può certo sorprendere in un Paese dove il lavoro di cura ricade interamente sulle donne, dal momento che nessuna politica di conciliazione è stata fatta come è invece è accaduto, per donne e uomini, nel nord Europa, né si è investito nei servizi o in welfare.
E per quanto possa giudicarsi eccessiva o persino sbagliata, la scelta del Women in the World 2011, la conferenza internazionale sulla condizione femminile nel mondo tenutasi a New York, di prendere in esame un’unica democrazia occidentale, la nostra, è un incontrovertibile segnale di allarme. L’arretratezza della situazione delle donne in Italia, è stata costretta a spiegare in quell’occasione la vicepresidente del senato Emma Bonino, «è frutto di un’accumulazione di fattori: il familismo ipocrita viene esasperato dal ricorso costante agli stereotipi e alla volgarità. Ricacciata in casa, privata delle infrastrutture sociali più elementari, la donna italiana è l’ultima dell’Unione Europea sotto ogni aspetto, in tutte le classifiche». Mentre il Newsweek nel presentare l’appuntamento del Women in the word, commentava così lo straordinario successo della manifestazione del 13 febbraio, Se non ora quando?: «L’affluenza ha superato le attese, le italiane sono scese in piazza contro il premier Silvio Berlusconi e la cultura sessista creata dal suo impero mediatico. Dopo mesi di scandali sulle avventure sessuali di Berlusconi, e anni di stallo in una nazione dove il 90 per cento degli uomini non ha mai acceso una lavatrice, le italiane dicono Basta». Non è vero che scendemmo in piazza contro il Premier. Certo, l’esasperazione per la sua proterva e famelica «dismisura» fu un formidabile collante, ma quel milione di donne che affollarono le piazze d’Italia fu capace di una mobilitazione impressionante perché mosso da ragioni che venivano da molto lontano e più lontano dell’antiberlusconismo andavano. La verità è che a centinaia di migliaia, ciascuna per sé, sapeva il dolore e la pena, la rabbia e la frustrazione per lo iato ormai incolmabile che esiste tra le proprie storie, di valore, talento, intelligenza, coraggio, di obiettivi raggiunti, di battaglie vinte; tra la qualità e i meriti che ciascuna ha espresso nella propria vita, ha riversato negli ambiti di appartenenza, lavoro e professioni, studi, famiglia, relazioni, in una parola, nel mondo; e il fatto che tutto questo non sia diventato forza collettiva, non sia servito a contare, a fare la differenza. Al contrario, siamo oppresse da una rappresentazione di miseria simbolica, da una narrazione televisiva che calpesta la nostra dignità, che rischia di occultare la realtà di quel che siamo e di sostituirsi a essa, da un linguaggio politico offensivo, da una società che ha ormai perso qualunque freno inibitorio, da una certa politica che ha fatto dei corpi delle donne palese merce di scambio… Come non cogliere che nello stesso Paese che ha espulso le donne dalla scena pubblica è lo stesso Paese dove ogni tre giorni muore una donna per mano di un uomo? Dove si calcola che più di sei milioni di uomini siano clienti abituali di trans e prostitute? Nel quale le donne hanno sulle spalle, anche quelle che lavorano, più del 70 per cento del lavoro di cura e dall’altra parte gli uomini, proprio dalle loro donne, madri, mogli o amanti, vengono trattenuti in un infinito giardino d’infanzia, esentati da qualunque compito di accadimento e non solo?
È possibile non rendersi conto che tanto più si maschilizza la nostra società tanto più i parametri sociali, economici, culturali arretrano? E tuttavia queste dieci leggi non sono «per le donne», innanzitutto perché chi le propone non pensa di appartenere a una categoria protetta e tantomeno a una lobby o, banalmente, a una minoranza discriminata. Queste sono le leggi che le donne chiedono alla politica, non (solo) per se stesse, ma per proprio per tutte e per tutti. Le chiedono in quanto consapevoli di partecipare al mondo e del mondo insieme a un altro sesso, e poi come povere o come ricche, come professioniste o disoccupate, vecchie e giovani, precarie e garantite. Le chiedono, e basta leggerle per capirlo, non come tutele o privilegi, come contributo a una visione nuova di società, di futuro, di equità. Le chiedono, infine, perché, fatalmente, un Paese dove vivono bene le donne è un luogo nel quale vivranno meglio tutti. Iaia Caputo

2 commenti:

  1. Ringraziando ancora Iaia Caputo per il suo intervento, propongo un'interessante lettura: l'articolo L'Isola Salvata dalle Donne tradotto e pubblicato da Internazionale (qui il link http://www.infonodo.org/node/30390). Io mi limito a riportarne alcune frasi illuminanti: La prima, a voce della premier Johanna Siguroardottiir: «la parità dei sessi è uno dei più attendibili indicatori della qualità di vita di un Paese». La seconda, è che, come è scritto nell'articolo, a far ripartire il Paese andato in bancarotta sono state le donne. Alle donne sono state affidate le banche responsabili del crac. Un motivo in più per non considerare le istanze poste dalle donne come inopportune. Esse infatti non sono un ulteriore problema posto sul tavolo, ma la risoluzione del problema.

    RispondiElimina
  2. Ho avuto la grande fortuna, e grande onore, di introdurre la presentazione del libro di Iaia Caputo "Le donne non invecchiano mai" ad Alba (Cn) un paio d'anni fa, organizzata da Marilde del blog La solitudine delle madri. E' stato un incontro bellissimo, e sono davvero felice di poter leggere un suo bellissimo contributo anche per questa iniziativa in cui credo!

    RispondiElimina